Definire il Sufismo a parole è come voler descrivere il miele a chi non l’ha mai assaggiato. Qualunque definizione risulterebbe parziale e inadeguata. Le parole sono limitate, mentre il Sufismo attiene all’essenza.
Il Sufismo è l’anelito al Divino, alla Sua bellezza e maestosità.
Questa esigenza di Dio, insita nel cuore di ognuno di noi, nasce con l’uomo e lo accompagna sin dall’inizio dei tempi.
Il Sufismo non è altro che la Via interiore, il misticismo racchiuso all’interno di ogni religione.
Nei secoli ha assunto forme e aspetti diversi: da Adamo, al misticismo di Gesù (pace su di loro), attraverso la ricerca dei monaci, i rishi -i saggi d’Oriente-, gli eremiti di molti cammini spirituali, fino ad assumere la forma attuale del cuore mistico, estatico e pacifico dell’Islam.
I Sufi sono da sempre cercatori di verità, e quando il Profeta Muhammad (pace e benedizioni su di lui), l’ultimo e il più amorevole tra i profeti, apparve in questo mondo, la gente sufi accettò la sua forma e iniziò a cantare le sue canzoni, al ritmo di quella musica celeste che entra nel cuore e senza la quale non poterono più vivere.
Mevlana Jalaluddin Rumi dice: «Veniamo al mondo con un cuore crudo; bisogna cucinarlo per renderlo tenero». Allora ci si vorrà voltare per guardare la propria origine, che è Dio, la fonte della pace, della beatitudine.
Un fuoco vivo e un bravo cuoco sono necessari per compiere l’impresa. Il Sufismo fornisce entrambi.
A guardare la Via dall’esterno non si può dire che accada molto. Solo se ci si addentra al suo interno, assaporandone l’esperienza, si potrà compiere un lungo viaggio la cui meta finale traspare, gioiosa e amorevole, nel bagliore degli occhi del maestro.
Taluni considerano il Sufismo alla stregua di una dottrina. Ne fanno l’oggetto dei propri studi e, una volta arrivati a padroneggiarne il pensiero, si convincono di essere diventati dei sufi. Tentano di raggiungere Dio con l’intelletto senza mai mettere in discussione la propria esistenza quotidiana.
Diversamente, la Via dei sufi – detti anche più semplicemente dervisci – è innanzitutto un modo radicale di essere, non solo di credere. E’ uno stile di vita, un percorso profondo che tocca l’anima, il cuore e come tale possiede una forza che deve penetrare ogni singolo aspetto, visibile e invisibile della propria esistenza.
Non si può diventare sufi e rimanere così come si è. È impossibile.
La bellezza ineguagliabile delle architetture e delle decorazioni di edifici come il Taj Mahal, Al Hambra, Ishfahan, i preziosi motivi dei tappeti e dei tessuti, la musica, le calligrafie, le poesie mistiche: sono tutti aspetti visibili e allo stesso tempo invisibili del lavoro dei maestri sufi attraverso i secoli.
È sempre stata la loro arte, sottile e impercettibile, intessere un messaggio di bellezza, armonia e pace che penetrasse nelle intime fibre della società in cui operavano, senza di solito combattere apertamente il sistema materialistico del tempo. Questa è la loro silenziosa ribellione, la vittoria della bellezza e della verità.
Il derviscio chiede al Signore di volgere lo sguardo verso di sé, Lo invita ad abitare nel suo cuore. Allo stesso tempo sa che la casa va adeguatamente preparata per poter aspirare a ricevere un ospite tanto importante. Ecco sorgere la necessità del lavoro interiore. I dervisci infatti, quando si riferiscono alla Via, non parlano abitualmente di «Sufismo» bensì di «Lavoro».
Il Sufismo ha a che fare con l’amore, la verità, la semplicità, la gratitudine. E’ l’apertura verso una vita magica e felice.
(da: Burhanudidn Herrmann, IL SUFISMO, seconda edizione, Armenia, Milano, 2015)